San Raffaele, aiutami tu!

Da qualche settimana a questa parte, l’ospedale San Raffaele di Milano è entrato a pieno titolo nella mia personalissima top ten di “posti dove trascorrere un piacevole weekend fuori porta”. L’ho scoperto per caso. Ci sono andata con altre finalità, a dire il vero: pensavo semplicemente di farmi ricostruire i legamenti del ginocchio sinistro, fieramente lasciati su un campo da calcetto durante l’azione forse più stupida nella storia di quel pur nobile svago.

I preparativi non sono stati semplici. Per mia grande fortuna, non ho particolare dimestichezza con ospedali e strutture simili. Tra l’altro sono andata incontro all’intervento con grande maturità: avendone, sotto sotto, una fifa tremenda (“Manu cuor di leone”), non ho fatto altro che infilare la testa sotto la sabbia, come uno struzzo. Infatti anche loro, se non sbaglio, hanno dei problemi alle ginocchia. Non avevo la minima idea di cosa mi avrebbero fatto, né tanto meno di come l’avrebbero fatto, cosa che nella mia testa alimentava una serie di fantasie che oserei definire medievali. Avevo solo una certezza, tutt’altro che rassicurante: avrei mangiato da schifo per 4 giorni.

Ero anche un po’ preoccupata perché, dai miei ricordi, in ospedale si sta in pigiama, e io di pigiami non ne ho. Dormo così tanto bene con le mie improbabili magliette che non mi sono mai posta il problema di comprare qualcos’altro. Quando ho chiesto informazioni a riguardo, m’hanno spiegato che del pigiama in effetti non avrei avuto alcun bisogno perché, data la natura dell’operazione, avrei dovuto mettere la camicia da notte. LA CAMICIA DA NOTTE. (Regola n. 1: Se non vuoi avere risposte, non fare domande. Mai.) Di quelle, però, un paio ne ho. Ho quindi prontamente indetto un sondaggio tra i miei affetti più cari e il risultato è stato unanime: ha vinto Gatto Silvestro.

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Mentre la data del mio ricovero si avvicinava, è successa un’altra cosa piuttosto significativa: Silvio Berlusconi è stato ricoverato. Per uveite. Al San Raffaele. Mentre le battute si sprecavano, io avevo un solo pensiero: incontrarlo nei corridoi e spaccarmi anche i legamenti del ginocchio destro a furia di dargli dei calci nel culo. L’avrei fatto con gioia, anche se questo avesse significato farmi trasferire in un nanosecondo da San Raffaele a San Vittore. Insomma, alla fin fine sempre santi sono.

Il San Raffaele, tra l’altro, è un ospedale piuttosto particolare, o per lo meno molto diverso da quei pochi che avevo visto prima. Ci si arriva dalla metropolitana con una specie di trenino che fa molto Gardaland. Appena arrivati, per andare da qualsiasi parte, si sfila davanti a una serie di negozi (la “Galleria delle boutique”) con parrucchieri, agenzie di viaggio, librerie, supermercati, spaccio della Lindt, articoli di artigianato e chi più ne ha più ne metta. Meglio che in corso Buenos Aires. Poi basta girarsi un attimo e si finisce nel presidio dei manifestanti, fra tendine e striscioni installati dal personale che non ha particolarmente gradito i recenti tagli allo stipendio. I manifesti sono particolarmente carini perché tematici: per esempio, l’otorino si lamenta perché l’amministrazione è sorda alle esigenze dei lavoratori. Mi dispiace quasi non aver visto lo striscione dell’andrologo.

Tra l’altro, è cosa nota e facilmente intuibile anche dal nome che il San Raffaele non è proprio l’ospedale più laico dell’universo. Qua e là, così come promemoria, ci sono delle frasettine che servono a calarsi nell’atmosfera: «il nostro obiettivo, così come scritto nella Bibbia, è curare gli infermi» (infermo ci sarai tu, io sono una calciatrice delle Doppie Punte eroicamente caduta in battaglia), «in questo luogo il personale e i pazienti espiano i loro peccati attraverso la sofferenza e la malattia» (che i pazienti ancora ancora, ma quei poveretti del personale devono averla fatta ben grossa per stare lì a espiare 6 giorni a settimana…), e così via.

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Comunque, il 14 marzo è arrivato presto. Avevo l’ordine tassativo di presentarmi là alle 7, a digiuno («Ma almeno un caffè…?». «Non se ne parla neanche». Argh.). Gli schermi dell’accettazione proiettavano a ciclo continuo la proclamazione del nuovo papa, avvenuta giusto giusto la sera prima, salvo interrompersi di tanto in tanto per dar spazio a Tele San Raffaele (sì, l’ospedale ha un proprio canale tv). A quel punto compariva il video di un medico, caruccio, che diceva: «Salve, io sono il dottor Pinco Pallino e mi occupo dei disturbi alla carotide. La carotide è … blablabla… e può venire colpita da diverse malattie, come… blablabla». Giuro: quando sugli schermi è ricomparso il faccione di papa Francesco, mi son sentita più rilassata.

All’accettazione sono stata ricevuta da una signorina che non faceva nulla per nascondere la gioia che evidentemente provava nell’essere lì a lavorare alle 7 di mattina. Ha controllato le mie carte una ventina di volte e poi, tipo Caronte, ha emesso il verdetto: «Reparto A, piano 4, avanti un altro!». Siccome non ho avuto il coraggio di chiederle dove fosse il reparto A, ho girato per una mezz’ora, con valigia e stampelle in spalla, per il giardino del San Raffaele, fra i giochi d’acqua e le statue di pietra rossa, con l’Hotel Rafael (per i familiari dei pazienti, I suppose) sullo sfondo: un po’ come essere a Sharm.

Dopo un paio d’ore d’attesa, un’infermiera m’ha portata nella mia stanza. Che Berlusconi avrà avuto una suite, ma pure la mia non scherzava. Una singola di dimensioni notevoli, strategicamente piazzata accanto al posto infermieri, con un bagno grande il triplo di quello che ho a casa e una vista niente male su via Olgettina. A quel punto non sapevo bene cosa fare, quindi, per sentirmi più introdotta nell’ambiente, mi sono messa in camicia da notte sotto le lenzuola e ho attaccato a dormire (senza caffè. Ero senza caffè da un sacco di ore). Dopo un po’ è arrivato il mio dottore. Ero felicissima di vedere una faccia amica lì dentro. Saluti, baci, abbracci, pacche sulle spalle. E poi mi fa: «Noi cosa dobbiamo fare oggi?». Lì, lo confesso, ho avuto paura. «Mi aveva detto che dovevamo ricostruire il legamento…». «Ah già. Quale?». «Ginocchio sinistro…». Questo ha preso una penna e m’ha fatto una croce bella grande sul ginocchio da operare, poi se n’è andato. Da quel momento, non sono più riuscita a riaddormentarmi.

Finalmente è arrivato anche il momento dell’intervento. La gamba chiaramente era anestetizzata e, a ogni buon conto, m’avevano iniettato un tranquillante, ma comunque ero vigile e sentivo chiaramente i discorsi dei dottori che m’operavano. «Bel casino qua. Tu quanto prendevi prima di stipendio?». «1600». «Solo? Pensavo di più». «Seeee, magari. Ecco, martella lì che spostiamo il tendine». Tum, tum, tum, tum… «La paziente è sveglia?». «Sì!», grido io, per far capire che va bene martellare, ma con una certa delicatezza. «Guardi, già che ci siamo le facciamo anche i menischi, questo è andato…». Ciao ciao menisco. «Ma sì, tanto lei è una sportiva…». Credo che il tutto sia andato avanti un paio d’ore. Poi sono stata messa nelle mani di due infermiere pugliesi che, mentre mi facevano le radiografie al ginocchio, dissertavano sul tema: “20 euro per una seduta dalla cartomante sono troppe o ogni tanto si può fare?”. Quando sono rientrata in stanza, con il mio ginocchio nuovo, ho tirato un sospiro di sollievo. E quando, subito dopo, ho visto entrare una specie di angelo con un mazzo di fiori tutto per me, mi son sentita veramente felice. Ho mandato messaggi di rassicurazione alla mamma e a pochi altri intimi, poi, saranno state sì e no le 20, mi sono addormentata.

Chi crede che al San Raffaele le notti siano tranquille, si sbaglia di grosso. Sarà che ero vicina al posto infermieri, ma ogni mezz’ora entrava qualcuno. «Tutto bene?». «Sì, dormivo…». «Ha bisogno di qualcosa?». «No, dormivo…». «Se ha bisogno mi chiami, eh?». «Sì, intanto dormo…». E così via, fino a mattina. Ero talmente rincoglionita che, quando a mezzanotte è arrivata un’infermiera a farmi una puntura sulla pancia, non ho opposto nessuna resistenza.

Anche la mattina c’era un via vai assurdo. Prima veniva la signora delle pulizie, che mi raccontava i suoi problemi con la madre e il marito mentre passava lo scopettone per terra. Poi un infermiere a cambiare le lenzuola – io intanto, con il girello che mi avevano dato e di cui ero molto orgogliosa, andavo in bagno a lavarmi. Poi il dottore per la visita di controllo. Poi quelli della colazione, che consisteva in un bicchierone di caffelatte (con cucchiaino e cannuccia, molto Starbucks) e un pacchetto di biscotti senza burro e senza uova. Io li mangiavo con sopra due dita di Nutella, dono anch’essa dell’angelo di cui sopra. Poi le tirocinanti a misurarmi pressione, battito cardiaco e temperatura. Poi i miei preferiti: i volontari. Erano per lo più signore cinquanta-sessantenni, che si piazzavano davanti al mio letto e mi chiedevano: «Come stai? Cosa ti sei fatta? Posso fare qualche commissione per te?». Le prime le ho un po’ snobbate, dico la verità. Poi, quand’ho capito che la loro era proprio una missione, ho cercato di dare un po’ più di soddisfazione. A una, tale Angiola, ho attaccato una pezza lunga almeno mezz’ora. Quand’è uscita dalla stanza, se non s’è suicidata, poteva tranquillamente mettersi a scrivere la mia biografia.

Ogni tanto scendevo dal letto e saltellavo per i corridoi con il mio girello (gli infermieri lo chiamano deambulatore, tanto per dargli un tono). Il mio primo traguardo è stato arrivare nel corridoio fino alla terza finestra, quella da cui si vedeva la torre RCS: il primo amore non si scorda mai. Poi ho iniziato a prendere le stampelle e sperimentare qualche tragitto un po’ più lungo. Dopo un paio di giorni ho imparato a mettermi i pantaloni e le scarpe, spingere con un colpo di bacino il maniglione antipanico, zompettare fino all’ascensore, scendere al piano terra, uscire all’aperto e fumare una sigaretta. L’ho trovata una grande conquista. In virtù del mio tabagismo, mi sono anche guadagnata una sedia a rotelle – me l’ha procacciata Nico, il più simpatico degli infermieri, che fin dal giorno dopo l’intervento mi ha assicurato che avrei potuto tranquillamente scolarmi una bottiglia di Chianti senza alcun problema. Con la sedia a rotelle (e la complicità di amici e genitori) sono scesa prima a fumare una sigaretta, poi a prendere un caffè e infine, domenica 17 marzo, a bere una birra. È stata una cosa fantastica, bersi una Becks in sedia a rotelle nel bar dei seminterrati dell’ospedale. Ma era il giorno di San Patrizio e tra santi ci si intende, quindi anche San Raffaele ha chiuso un occhio.

Dopo due giorni che ero lì, è entrata in stanza una infermiera senior con due tirocinanti al seguito. «Oggi togliamo il drenaggio!», mi fa lei. «Wow!», rispondo io. M’ero stancata di girare con tutti quei tubi dietro. Poi si gira verso una delle due sbarbatelle e fa: «Anzi, vuoi farlo tu?». Lei: «Ma veramente non l’ho mai fatto prima…». «Perfetto, così impari!». Confesso: ho avuto di nuovo tanta, tanta paura. Però ho pensato che ero comunque sdraiata e potevo pure svenire senza cadere, quindi ho chiuso gli occhi e lasciato fare. È stato tutto più rapido e indolore del previsto. Quando li ho riaperti, dal mio ginocchio stava uscendo una specie di blob. «Ecco ragazze», spiegava l’infermiera senior, «quando fa così non dovete subito mettere la garza ma spremere finché non esce tutto», e via a strizzarmi la gamba. Ho richiuso gli occhi im-me-dia-ta-men-te. Prima di andarsene, infermiera e tirocinanti non la smettevano più di ringraziarmi per essermi prestata a far da cavia. «Gli altri pazienti non vogliono le tirocinanti, invece le ragazze devono imparare… Grazie, grazie davvero». Purtroppo non ho avuto la presenza di spirito della mia amica Simo, che m’ha fatto notare che le tirocinanti dovrebbero potersi esercitare con i pazienti novantenni e non con una treantaequalcosaenne che ha ancora tanto da dare al mondo dello sport (l’ho già detto che gioco nelle Doppie Punte, sì?).

Ma la visita migliore l’ho ricevuta la domenica mattina. È arrivato da me questo strano tizio in camice con crocefisso massiccio al collo e ostie nella mano sinistra, ragion per cui avrei pure potuto capire che si trattava del prete. S’è messo a parlottare del più e del meno, m’ha chiesto perché fossi lì e via dicendo. Era simpatico. «Lei è sposata?», mi fa. «No», rispondo. «E certo che non è sposata, mi scusi, m’ha appena detto che gioca a calcetto!». Niente, questa sua uscita m’ha fatto troppo ridere. Mentre me la ghignavo, però, è arrivata la seconda domanda difficile: «Lei è credente?». «Eh… no, veramente no». «Non si preoccupi!», s’è affrettato a rispondere, quasi sollevato.«È che qua ci sono sempre i vecchi che vogliono il santino, vogliono fare la comunione, ma ci mancherebbe…». Risolta la sua questione professionale, abbiamo potuto chiacchierare liberamente. Mentre mi raccontava di un tizio che s’era fatto falciare da un pazzo sugli sci, gli è caduto l’occhio sul mio comodino. Un po’ incredulo, m’ha detto: «Ma scusi signorina, e quel cavatappi lì?!». OPS. Giuro signor prete, non è come sembra.

Insomma, dico la verità: quando il lunedì mattina Giulia è venuta a raccattarmi, un po’ m’è dispiaciuto. Non tanto, solo un po’. È che son proprio stata bene in quei giorni. Infatti chi m’ha vista, una volta tornata a casa, ha detto che sembravo una appena uscita da un Club Med, non dall’ospedale. Adesso sono in gran forma, continuo a zompettare sulle stampelle e faccio gli esercizi per rendere il più fluido il mio nuovo ginocchio. Ma a maggio andrò in vacanza davvero, e spero che al mio ritorno a nessuno venga in mente di dirmi che sembro una appena uscita dal San Raffaele…

Informazioni su Manu

Romagnola (molto romagnola), ho vissuto dodici anni a Milano e, da gennaio 2017, mi sono trasferita a Berlino – anche se, come giustamente mi fanno notare, non ho mai passato tanto tempo in Italia come ora che sto in Germania. Comunque. Dal 2004 lavoro nel settore dell’editoria, con varie mansioni. Mi occupo di correzione bozze, editing, assistenza agli autori, progettazione volumi e collane, ghostwriting. Sono autrice (ho scritto, fra l’altro, di libri, cinema, TV, sport, cucina) ed enigmista (creo giochi per bambini-bambini e bambini-quelli grandi). A marzo 2016 è uscito il mio primo romanzo, Il colore dei papaveri, per i tipi di Piemme. Attualmente sto facendo del mio meglio per far sì che non sia anche l’ultimo.
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Una risposta a San Raffaele, aiutami tu!

  1. Sarah Giordano ha detto:

    Me l’ero perso: sei unica!

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